Non so per quale strano motivo questo libro è considerato un classico della letteratura per l’infanzia. In realtà l’autore, vissuto tra il 1600 e il 1700, si diverte a prendere per i fondelli la società e soprattutto l’esercizio del potere delle due superpotenze dell’epoca (l’Inghilterra e la Francia) attraverso pseudonimi e metafore, celati dal tono fiabesco delle sue avventure. Che sono ovviamente del tutto inventate, sfruttando un genere, quello della letteratura di viaggio, che fin dai tempi dell‘Odissea aveva sempre intrigato il pubblico. Non per niente il quasi coevo “Robinson Crusoe” aveva già riscosso un enorme successo: il Gulliver ne rappresenta una nemmeno tanto nascosta parodia.
Sono quattro i viaggi, ma a noi interessa quello nel paese più raccontato alle generazioni successive, quello di Lilliput. Qui, dopo aver fatto naufragio, il dottor Lemuel Gulliver si addormenta su un soffice prato e quando si risveglia si ritrova impacchettato come un salame in posizione supina. La prima persona che riesce a vedere con la coda dell’occhio è “una creatura umana alta una quindicina di centimetri, con in mano arco e frecce, e una faretra sulla spalla”.
Basta questo a intrigare l’arciere che è in ciascuno di noi e a proseguire nella divertente, ancorchè attualissima lettura del romanzo.
Swift, J., I viaggi di Gulliver, Mondadori 2003
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