Erant in quadam civitate rex et regina (C’erano una volta in una città un re e una regina). Inizia così la storia di un bel giovane armato di arco e frecce, dedito all’arte di far innamorare più che a quella di innamorarsi lui medesimo, e dell’avventura che gli occorse quando suo malgrado fu colpito da una sua freccia mal scoccata. Il giovane, l’avete già capito, era il dio greco Eros, per noi latini Cupìdo.
L’arciere dio dell’amore è certamente di uno dei soggetti più trattati dagli artisti in ogni epoca, dalla antichissima opera in marmo di Lisippo dove si vede un bell’adolescente nell’atto di incordare l’arco (foto 1), al bel quadro del Parmigianino con Cupido ragazzino che si costruisce un arco (foto 2), alla scultura di Bouchardon dove Eros ricava il suo arco dalla clava di Eracle (foto 3). Più rare sono le raffigurazioni del Cupido ferito, come quella di Dorothy Tennant (foto 5 ) o di William Bouguerau (foto 6), pittore che in verità ha ritratto Eros in moltissime situazioni, ad esempio nell’atto di punzecchiare una fanciulla (foto 4). Ma certamente la gran parte delle opere riguardano la sua bella e controversa storia d’amore (foto in calce).
La favola ce la raccontò nel II secolo un certo Lucio Apuleio, ricchissimo e gaudente cittadino romano nato da nobile famiglia a Madaura (Algeria), avvocato e viaggiatore, filosofo e romanziere. Anzi, a voler rendere onore al merito, certamente il più antico dei romanzieri nella cultura mediterranea, autore di una monumentale opera in 11 libri dal titolo “Le metamorfosi”, altrimenti nota come “L’asino d’oro”, praticamente l’unico romanzo latino pervenutoci integralmente: segno della grandissima fortuna che ebbe nell’antichità e successivamente presso i nostri letterati del Medioevo e via via fino a noi.
Dunque, dopo aver raccontato le mirabolanti avventure del protagonista Lucio, trasformato in asino pensante a causa di un esperimento magico mal riuscito, a partire dal libro IV e fino al VI Apuleio ci racconta la storia a lieto fine che servirà poi da modello a tutta tradizione favolistica europea.
C’era una volta una principessa, terza di tre figlie di un re e una regina. Le prime due erano belle, ma l’avvenenza della terza, di nome Psyche, era talmente straordinaria da suscitare in chi la guardasse stupore e dubbi sulla sua natura umana, di un fascino non inferiore a quello di Venere, la più bella delle divinità elleniche, dea della bellezza e dell’amore, che se ne ingelosì al punto tale da chiedere a suo figlio Cupìdo di suscitare in lei un amore ardente per un uomo volgare, vile e mostruoso. Cupìdo, però, si sbagliò e scagliò una delle sue frecce contro di sé, innamorandosi così egli stesso, nonostante fosse divino, di una donna mortale dall’aspetto celeste.
Nel frattempo i genitori di Psyche, preoccupati che la ragazza ricevesse tanta stima e tanta devozione ma nessuna proposta di matrimonio, si erano rivolti all’oracolo di Apollo. Il responso fu crudele: avrebbero dovuto esporla su uno scoglio dove sarebbe stata rapita da un orrido mostro. I genitori, pur fra le lacrime, dovettero obbedire, in osservanza alle leggi crudeli di quel mondo popolato da dèi, e la portarono a una rupe, così com’era stato loro ordinato. A quel punto, invece di un mostro, arrivò a rapirla il vento di ponente Zefiro, che dopo averla sollevata in volo la depose in un prato su cui la giovane si addormentò. Si risvegliò dopo poco e vide nel mezzo del bosco che le stava dinnanzi un palazzo dall’aspetto regale. Vi si avvicinò ed entrò attratta dal suo splendore.
Ecco come Apuleio descrive l’ingresso nel palazzo: C’era lì tutto quello che esiste al mondo di prezioso. Ma il miracolo più grande sembrava non tanto quella abbondanza di ogni ricchezza, ma il fatto che quel tesoro che conteneva le ricchezze di tutto il mondo rimanesse lì incustodito, senza catene, senza lucchetti. Mentre Psyche con grandissima gioia andava esaminando ogni cosa, sentì una voce incorporea che le diceva: «Perché, o signora, ti stupisci di fronte a tante ricchezze? Tutto quello che vedi è tuo. Entra nella tua stanza, riposa nel letto le tue membra stanche e poi quando tu lo vorrai, chiedi l’acqua per il bagno. Noi, che tu senti parlare, noi tue ancelle saremo pronte a servirti e ti apparecchieremo una tavola da regina appena ti sarai riposata». (Apuleio, Le metamorfosi libro V,1)
Psyche si ristorò, circondata dal canto delle voci misteriose. Poi andò a letto.
Ed ecco, nel cuore della notte, giunge alle sue orecchie un lieve rumore. Psyche allora, temendo in così grande solitudine al pensiero della sua verginità, comincia ad avere paura, la travolge un senso di orrore e teme l’ignoto più di ogni altro male. Ma ecco che le si accosta lo sposo sconosciuto, sale sul letto e la fa sua; e prima che sorgesse il giorno se n’era già andato. (Apuleio, Le metamorfosi libro V,4)
Da quella prima volta, ogni notte Cupìdo le faceva visita per poi scappare a ogni sorgere del Sole, senza che la sua amante potesse scorgerne il volto. L’unica minaccia a quel menage ricco di passione poteva essere costituita dalle sorelle di Psyche, che la davano per dispersa e la cercavano per mari e monti, ma che una volta scoperto il suo castello incantato l’avrebbero sicuramente istigata a scoprire l’identità del suo amante. La previsione si rivelò corretta: giunsero le sorelle, che presto sentirono nascere in sé il tarlo dell’invidia e tramarono alle spalle della giovane per rovinare la sua felicità. Instillarono in Psyche il seme del dubbio e della malizia, convincendola che quel caloroso amante che ogni notte le faceva visita altro non era che un mostro repellente e infido che le nascondeva la sua vera natura. Fu così che una notte, colta dall’ansia e dal sospetto, si armò di un affilato rasoio e accese una lampada da cui, per sventura, cadde una goccia d’olio che finì sul corpo dell’amato.
Questi si svegliò di soprassalto e fuggì lontano, mentre Psyche, accortasi che non si trattava affatto di un essere mostruoso, tentava invano di fermarlo. Disperata per la perdita subita, la giovane partì allora alla ricerca delle invidiose sorelle e, indifferente ai legami di sangue, non appena le trovò le spinse a gettarsi da un precipizio. Nel frattempo, Venere se ne stava beatamente immersa nelle onde dell’Egeo, mentre il figlio Cupìdo nel suo letto si lamentava della bruciante ferita e non solo.
Allora il gabbiano, quell’uccello bianchissimo che sfiora a nuoto la superficie dell’acqua, si immerse rapidamente nelle profondità dell’Oceano. Là, avvicinatosi a Venere che si bagnava e nuotava, la informò che suo figlio si era bruciato e stava lamentandosi per il dolore della piaga, ed era in pericolo di vita; e che questa storia era sulla bocca di tutti e che in giro si diceva ogni sorta di malignità e di mormorazioni sulla famiglia di Venere: «Si dice che ve ne siete andati, lui tra le montagne con una sgualdrina, tu nel mare a nuotare, e intanto nel mondo non c’è più alcun piacere, né grazia né garbo, ma tutto è sciatteria, rozzezza, grossolanità. Non più matrimoni regolari, non amicizie, non amore filiale, ma un dilagare dell’immoralità e un molesto fastidio di rapporti squallidi». Quel chiacchierone di un uccello andava ciarlando in questo modo spettegolando nelle orecchie di Venere e facendo a pezzi la reputazione del suo figliolo. Allora Venere piena di collera esclamò a un tratto: «Dunque quel tesoro di figlioletto ha già un’amica? Tira subito fuori, visto che solo tu mi sei fedele, il nome di quella che ha sedotto quel ragazzino ingenuo e innocente, sia essa una dalle Ninfe o delle Ore, oppure anche una del coro delle Muse o del corteo delle mie Grazie!» (Apuleio, Le metamorfosi libro V,28)
Il gabbiano non se lo fa dire due volte e spiattella alla dea il nome dell’amante del figlio. Alla scoperta che si trattava della sua rivale, Venere si infuriò con Cupìdo e lo rimproverò aspramente.
Prima ancora di entrare cominciò a gridare ancora fuori della porta: «Bel modo di fare! Ti sei comportato proprio come dovevi per tenere alto il nome della famiglia e il tuo! Hai calpestato gli ordini di tua madre, anzi della tua regina, visto che ti avevo comandato di tormentare la mia rivale con un amore ignobile, e per di più, ragazzino come sei, te la sei presa come amante e pretendi che io sopporti come nuora una nemica! Fannullone! Seduttore! Mostro! Credi di essere capace solo tu a fare i figli? E che io sia così vecchia da non poterne più avere? Ti farò vedere io! Metterò al mondo un figlio molto migliore di te, anzi, per mortificarti ancora di più adotterò uno dei miei schiavetti e gli regalerò le tue ali, e la fiaccola e l’arco e le frecce, e tutti questi arnesi che ti avevo dato perché ne facessi un uso diverso». (Apuleio, Le metamorfosi libro V,29)
E via dicendo: in parole povere lo riempì di insulti, e infine lo mise sotto chiave. Nel frattempo la sua rivale stava cercando di intenerire l’intero pantheon, compresa la madre del suo sposo, che alla sua vista saltò su tutte le furie:
appena se la vide davanti trascinata in quel modo scosse il capo, si grattò l’orecchio destro e scoppiò a ridere rabbiosamente. Poi disse: «Ti sei degnata finalmente dì venire a salutare tua suocera? O sei venuta qui a cercare tuo marito, che è in pericolo di vita per la piaga che gli hai procurato? Ma sta tranquilla che io ti farò l’accoglienza che si merita una buona nuora!». (Apuleio, Le metamorfosi libro VI,9)
Chiamò le più insopportabili delle sue ancelle, Angoscia e Tristezza, e le mandò a percuotere e torturare Psyche, che già portava in grembo il figlio di Cupìdo. Dopo averla presa per i capelli e malmenata lei stessa, decise di sottoporla a quattro difficili prove.
La prima consisteva nel mettere ordine in un ammasso di granaglie. Qui Psyche venne aiutata dal provvidenziale aiuto di alcune laboriose formiche, che sentirono pietà per lei. La seconda prevedeva che raccogliesse il fiocco della lana d’oro di un gregge di pecore, rabbiose verso gli esseri umani, e qui ricevette i consigli di una canna parlante che le suggerì come fare. La terza imponeva che portasse alla dea l’acqua tenebrosa dello Stige, compito che portò a termine grazie all’assistenza di un’aquila. L’ultima richiedeva che scendesse agli Inferi ed ottenesse da Proserpina una sua crema di bellezza, e questa volta fu una torre a dirle come procedere.
Ma in tale prova, disgraziatamente, Psyche fallì. Di nuovo la curiosità, ma anche il narcisismo, prevalse su quest’anima semplice e recidiva che, nonostante gli avvertimenti, non seppe resistere alla tentazione di aprire il barattolo per provare un po’di quella crema e, nel farlo, cadde in un sonno infernale simile a morte (foto 10). Per fortuna, Cupìdo riuscì a fuggire dalla prigione dove era stato rinchiuso e toltole di dosso la crema riuscì a scuoterla da un sonno che avrebbe potuto rivelarsi eterno.
Svegliò Psyche con una leggera e innocua puntura della sua freccia e le disse: «Ecco che di nuovo, poverina, sei caduta vittima della tua curiosità! Ma adesso pensa a portare a termine il comando di mia madre, per il resto me la vedrò io!» (Apuleio, Le metamorfosi libro VI,21)
E mentre Psyche si affretta a portare alla suocera il dono di Proserpina, il suo sposo vola dal nonno Giove, per chiederne la protezione. Il re di tutti gli dèi acconsentì, in cambio di un aiutino nelle sue avventure femminili:
Giove lo prese affettuosamente per la guancia, lo avvicinò in tal modo al suo volto, lo baciò e gli disse: «Anche se tu, mio signor figlio, non mi hai mai reso quell’omaggio che mi è dovuto per decreto degli dei, ed anzi hai ferito più volte con i tuoi colpi questo mio petto, che regola le leggi della natura e i movimenti degli astri, e contravvenendo alle leggi […] e alla pubblica moralità hai offeso il mio onore e la mia reputazione con i più sconci adulteri, trasformando vergognosamente il mio volto sereno in serpente, in fuoco, in uccello, in animale da mandria, tuttavia, in considerazione del fatto che sei cresciuto tra le mie braccia, e per non venir meno alla mia ben nota bontà, farò tutto quello che tu vuoi. Stai attento però ai tuoi rivali, e se sulla terra c’è in questo momento qualche fanciulla particolarmente bella, sai bene qual è il tuo dovere: portarmela qui in cambio del piacere che ti faccio!» (Apuleio, Le metamorfosi libro VI,22)
Poi chiamò a riunione tutti gli dèi e li invitò ad acconsentire al matrimonio fra Cupìdo e Psyche, anche per ridurre gli ardori del giovane dio. Rassicurò Venere sul fatto che avrebbe fatto celebrare un matrimonio fra eguali per non recar danno al suo casato e mandò Mercurio a prendere Psyche per portarla sull’Olimpo (foto 6) e farle bere l’ambrosia che rende immortali, pronunciando queste parole:
«Sume, Psyche, et immortalis esto, nec umquam digredietur a tuo nexu Cupido sed istae vobis erunt perpetuae nuptiae». (Prendi, Psyche, e sii immortale, e Cupido non si allontani mai dall’unione con te perché queste saranno le vostre nozze per l’eternità) (Apuleio, Le metamorfosi libro VI,23)
Come in ogni favola che si rispetti, le nozze furono celebrate nel massimo sfarzo. Psyche divenne sposa di Cupìdo secondo regola e consuetudine, e per abbellire il lieto fine Apuleio ci racconta che nacque loro una bellissima figlia a cui fu dato il nome di Voluttà.
La morale della storia a mio parere è molto semplice: a voler essere troppo curiosi si corre il rischio di incorrere nell’ira divina, ma per amore val la pena di rischiare.
Ce n’è poi un’altra, più banale se volete ma sicuramente più interessante per un arciere: quando scoccate una freccia, tenete bene a mente dove volgete l’arco e non fatevi distrarre dalla bellezza del bersaglio. Anche se nel caso di Cupìdo, o Eros che dir si voglia, gli è poi andata di lusso.
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