Come sono nate le rose? Secondo il poeta latino Ovidio (Publio Ovidio Nasone, nato a Sulmona nel 43 a.e.v. e morto a Tomi nel 18 e.v.) dalle lacrime di una donna innamorata.
Sentite come sono forti le parole che il poeta inglese Shakespeare (William Shakespeare, nato a Stratford upon Avon nel 1564 e morto nel 1616) mette sulle labbra di questa ragazza.
«O tu, di me tre volte ancor più bello,
fiore unico, dolcezza senza pari,
più florido di ninfa o di mortale,
più di colomba o rosa roseo e bianco!
In te Natura raggiunge il suo vertice,
annuncia che con te finisce il mondo.
Scendi dal tuo destriero, o meraviglia,
e la sua testa orgogliosa assicura
con le briglie al pomo della sella.
Se mi concedi questa cortesia,
ti svelerò mille segreti dolci;
se siedi qui, dove serpe non sibila,
accanto a me, ti coprirò di baci!
Non stancherò le tue labbra saziandole:
le renderà più avide l’accesso,
io le farò arrossire e impallidire
in modi sempre nuovi; dieci baci
saranno un bacio, un solo bacio venti.
E’ breve quanto un’ora il giorno estivo
se speso in questi giochi, i più incantevoli!» (W. Shakespeare, Venus and Adonis, London 1593)
In realtà, la ragazza non è una qualunque: il suo nome è Afrodite, figlia di Zeus, dea della bellezza, amante di innumerevoli dei e mortali. Secondo la leggenda, nacque dalla spuma marina, e del mare porta i tratti: la perenne mobilità, la liquida sfuggevolezza, l’incantevole bellezza anche quando è infuriato.
Dunque, secondo Ovidio le rose non esistevano, prima che questa donna si sciogliesse in lacrime alla vista del suo amato ucciso da un cinghiale. Un cinghiale molto incazzato, perché era in realtà una delle tante personificazioni del furioso Ares, dio della guerra invaghito della bellissima Afrodite che in qualche occasione non aveva mancato di concedergli le sue grazie.
Il fatto è che la benedetta ragazza da che aveva incontrato Adone non aveva più tempo per niente e per nessuno:
«Sedotta dalla bellezza di Adone, delle spiagge di Citera
non le importa più nulla, ignora Pafo cinta dal mare profondo,
la pescosa Cnido e Amatunte piena di metalli;
diserta persino il cielo: al cielo preferisce quel giovane.
Gli sta accanto, l’accompagna ovunque; lei, avvezza a godersi
l’ombra per curare e accrescere la propria bellezza,
ora si aggira per gioghi e selve, tra rocce e cespugli spinosi,
con la veste succinta oltre il ginocchio così come Diana,
e aizza i cani, inseguendo animali di facile preda:
lepri che schizzano via, cervi dalle corna eccelse,
oppure camosci.» (Ovidio, Metamorfosi, Libro decimo)
Adone era un ragazzo bellissimo. Più che un ragazzo, un adolescente: Afrodite se ne era innamorata praticamente nello stesso istante in cui, per qualche misterioso motivo come ce ne sono tanti negli antichi miti, era stato partorito già cresciuto. Non solo per questo la nascita di Adone fu diversa da quella di ognuno di noi: la madre Mirra, che l’aveva concepito giacendo sotto false vesti con suo padre, alla furia di questi sconvolto dall’involontario incesto riesce a fuggire, vagando per nove mesi finché stremata dalla fatica,
«combattuta tra il timore della morte e il disgusto della vita,
formulò questa preghiera: “Se c’è un dio che ascolta chi ammette
le proprie colpe, questa è, sì, la fine angosciosa che merito,
e non la rifiuto. Ma perché io non profani vivendo i vivi
e morta i trapassati, cacciatemi dal regno di entrambi:
fate di me un’altra cosa, negandomi vita e morte!”.
Un dio che ascolta i rei confessi c’è; o almeno un nume che esaudì
l’ultima parte dei suoi voti. Mentre ancora parla,
la terra avvolge le sue gambe, le unghie dei piedi si fendono,
diramandosi in radici contorte, a sostegno di un lungo fusto;
le ossa si mutano in legno e, restando all’interno il midollo,
il sangue diventa linfa, le braccia grandi rami,
le dita ramoscelli; la pelle si fa dura corteccia.
E già, crescendo, la pianta ha fasciato il ventre gravido,
ha sommerso il petto e sta per coprirle il collo:
non tollerando indugi, lei si china incontro al legno
che sale e il suo volto scompare sotto la corteccia.
[…]
Ma sotto il legno la creatura mal concepita era cresciuta
e cercava una via per districarsi e lasciare la madre.
A metà del tronco il ventre della madre si gonfia,
tutto teso dal peso del feto.
[…]
Si apre una crepa e dalla corteccia squarciata l’albero fa nascere
un essere vivo, un bimbo che piange: le Naiadi lo depongono
su un letto d’erba e lo ungono con le lacrime della madre.» (Ovidio, cit.)
Innamorata persa, (anche perché inavvertitamente l’onnipresente figlio Cupido l’aveva punta con una delle sue frecce d’oro) Afrodite aveva raccolto il neonato e l’aveva chiuso in una cassa, dandolo in consegna a sua sorella Persefone, figlia di Zeus e di Demetra, dea dell’oltretomba, anche lei molto bella almeno stando alle raffigurazioni antiche. Le affida il suo tesoro con mille raccomandazioni, e soprattutto facendosi sottoscrivere l’impegno di non aprire lo scrigno prima che fossero passati un po’ di anni.
La ragazza, andata sposa suo malgrado allo zio Ade che l’aveva rapita, non se lo fece dire due volte: ben presto aprì la scatoletta e (per quanto Cupido fosse in quel momento altrove) si innamorò a prima vista anche lei del bell’Adone, rivendicandone il possesso in una contesa che il padre degli dei e giudice supremo Zeus aggiustò da pari suo: sei mesi all’una e sei mesi all’altra; o secondo un’altra versione un terzo d’anno con Persefone, un terzo con Afrodite e un terzo da solo, che poi voleva dire con Afrodite perché come abbiamo visto la dea non lo perdeva di vista un solo istante. Le varie versioni tacciono in quale periodo Adone stesse con l’una o con l’altra, visto che Persefone stava (malvolentieri) sei mesi all’anno col marito giù agli Inferi; ma non andiamo troppo per il sottile.
La vita di Adone, bellissimo adolescente, era resa stuzzicante non solo dalle coccole delle due dee, ma a voler credere al poeta ellenico Teocrito (nato a Siracusa nel 315 e morto nel 260 a.e.v.) anche dalla frequentazione di una serie di amabili fan:
«Lui stesso, che spettacolo! È disteso
sopra un letto d’argento e gli discende
la prima barba dalle tempie, Adone
amato per tre volte, amato pure
nell’Acheronte.
[…] Arsinoe,
figlia di Berenice pari ad Elena,
con ogni cosa bella cura Adone.
Gli sono accanto i frutti di stagione,
tutti quelli che sono in cima agli alberi
e teneri giardini custoditi
in cestelli d’argento e ampolle d’oro
e d’alabastro con essenze sirie
e i cibi, tutti quelli che le donne
fanno sulla spianata, mescolando
alla bianca farina vari fiori,
quelli di dolce miele e intrisi d’olio.
Presso di lui son tutte le creature
dell’aria e della terra. Verdi pergole
s’innalzano con una profusione
di molle aneto e sopra vi svolazzano
piccoli Amori, come usignoletti
da ramo a ramo in volo sopra l’albero
provando le ali in crescita.
[…]
“Noi siamo stati a preparare il letto
al bell’Adone. Adone è in braccio a Cipride,
Cipride, sta tra le sue rosee braccia.
Diciott’anni ha lo sposo o diciannove,
il suo bacio non punge, è ancora biondo
il contorno del labbro. Ora sia lieta
Cipride col suo sposo, ma all’aurora
lo porteremo insieme alla rugiada
noi tutte insieme, fuori, dove le onde
battono sulla riva e, a chiome sciolte,
con vesti lunghe fino alle caviglie,
e col seno scoperto, intoneremo
un canto melodioso:
[…] Móstrati benigno
anche l’anno venturo, Adone caro,
come ora ci allietasti col tuo arrivo,
ci sarai caro quando torni, Adone.» (Teocrito, Idilli, XV)
Ma lui, sempre secondo il mito, si concede poco. Tanto che pare che alla fine Afrodite lo farà ubriacare (nell’antica Grecia l’ebbrezza era quasi sempre una dimensione salutare perché associata ai miti della rinascita e della fertilità) e finalmente l’impubere giovincello poté assaporare piaceri della vita diversi dal rincorrere farfalle o andare a caccia.
Ma fu una breve estate. Le coccole e le laute merende sono una gran cosa, ma vuoi mettere il richiamo atavico della caccia con l’arco e con la picca? Ben presto il richiamo della foresta prese il sopravvento, e un brutto giorno Adone non si prese cura delle raccomandazioni dell’ innamorata:
«Sii prode con gli animali che fuggono!
ti dice. “Il coraggio con quelli coraggiosi è pieno di pericoli.
Non essere temerario, ragazzo, con rischio anche mio;
non sfidare belve a cui natura ha dato armi d’offesa:
la tua gloria mi costerebbe cara! L’età tua,
la bellezza e ciò che ha incantato me, Venere, non incantano
i leoni, i cinghiali irsuti, gli occhi e il cuore delle belve.
I crudeli cinghiali hanno il fulmine nelle zanne adunche […]» (Ovidio, cit.)
e affrontò il gelosissimo Ares che lo inzigava sotto mentite spoglie.
«Fulmineo il truce cinghiale, rotando il grugno, si strappò la picca
intrisa del proprio sangue e, inseguendo Adone, che disorientato
cercava scampo, nell’inguine gli cacciò tutte le zanne,
facendolo stramazzare ormai moribondo sulla bionda rena.»
Afrodite stava svolazzando beata sul suo cocchio trainato da cigni quando sentì il lamento dell’amato. Accorse, ma c’era nulla da fare. Il prato intorno era inzuppato dal sangue di Adone, e a nulla valsero le sue implorazioni. L’unica grazia chiesta al Fato, che su tutto sovrasta ed anche sulla vita delle divinità, fu quella di porre un segno a imperituro ricordo dell’amato bene, e poter trasformare il sangue di Adone in un fiore rosso, l’anemone, che Ovidio così descrive:
«fiore di vita breve:
fissato male al suolo e fragile per troppa leggerezza,
deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali.» (Ovidio, cit.)
Intanto, le sue lacrime avevano punteggiato l’erba di fiori bianchi, le rose appunto. Che secondo un altro racconto la stessa Afrodite aveva creato con il concorso di Dioniso e di Zefiro per ridare vita alla ninfa Clori, riempendo l’Ellade del profumo e del nettare di questo bellissimo fiore. Mito ripreso da Botticelli, cine nella sua Nascita di Venere pone come testimoni dell’evento Zefiro e Clore che spargono sul suo corpo rose bianche. Secondo un altro finale, le rose che prima erano bianche diventarono rosse dal sangue della dea che si era punta accorrendo in soccorso di Adone.
La fortuna letteraria ed artistica di questa vicenda evidentemente legata al ciclo delle stagioni fu enorme, e credo che il mito di Adone sia tra i più rappresentati. In particolare, Adone come tutti i giovanotti ellenici amava molto cacciare ed aveva ricevuto un addestramento dalle colte Ninfe che amavano frequentarlo per godere della vista della sua bellezza. Come abbiamo visto, anche Afrodite non si risparmia nel dargli una serie di dritte. Cacciatore e dunque arciere?
Nelle fonti scritte che ho velocemente consultato non ho trovato nessun esplicito richiamo all’arco. Ed è vero che nell’unico affresco coevo alla accurata narrazione di Ovidio (pittura parietale nella Casa di Adone ferito, Pompei) il giovinetto è ritratto senza armi. Ma è anche vero che in un mosaico del V secolo a prima vista pare avere l’arco a tracolla, ed alcune delle prede sembrano appunto trafitte da frecce.
Ma più in generale, credo che l’idea di un cacciatore senza arco strida abbastanza con la tradizione. Ed effettivamente in alcune delle raffigurazioni pittoriche di età umanistica e successive si tralascia il riferimento marcato alla “picca” che abbiamo trovato in Ovidio e il ragazzo, almeno quando lascia l’alcova per partire con suoi cani, ha l’arco a portata di mano (foto 2) o la faretra a tracolla (foto 3). In una in particolare sembra addirittura impugnare una improbabile zagaglia (foto 4). Invece, nella maggior parte delle numerosissime raffigurazioni la fedeltà alla fonte più nota, e cioè Ovidio, è molto rigorosa. Ma c’è da dire che la visione del mondo della classe sociale del poeta latino vietava l’idea che un nobile potesse usare arco e frecce.
In ogni caso, cacciatore con l’arco o senza, ho sempre avuto l’idea che Adone rappresenti un tipo di maschio che piace alle donne ma che al tempo stesso (e forse forte proprio della sua bellezza) le snobba per dedicarsi ad altre occupazioni considerate più virili del perdersi in effeminate coccole.
Un esempio da non imitare, e non solo per evitare le zanne di qualche cinghiale inferocito.
© pino arpaia, verbania aprile 2013
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