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   Gen 27

Il trono di sangue (1957)

Titolo Originale: Kumonosu-jo (Il castello ragnatela)

Regia: Akira Kurosawa

Interpreti: Toshiro Mifune, Jisuzu Jamada

Durata: 114′

Origine: Giappone

I due samurai si perdono nella nebbia.

TRAMA. Come già il precedente “I sette samurai”, il film è ambientato nel Giappone medioevale del XVI secolo. Taketoki Washizu è un nobile guerriero a cui dopo una brillante vittoria viene profetizzata l’ascesa al potere, insieme all’amico Miki. La profezia si avvera: il re offre ai due una migliore posizione nella gerarchia feudale, affidandogli rispettivamente la signoria di un castello e il comando di un forte. Ma Washizu, consigliato dalla moglie Asaji che non vede di buon occhio la possibile successione del figlio di Miki, uccide il re ed usurpa il trono. Durante i funerali del re, i guerrieri vengono a conoscenza del delitto, ma Washizu riesce a mantenere il potere anche grazie alla promessa di lasciare in eredità il trono al figlio di Miki. Istigato ancora dalla moglie, Washizu esercita il suo dispotico potere con un ulteriore tradimento, facendo assassinare anche Miki e il figlio dopo averli invitati a un banchetto. Assalito dai sensi di colpa e spaventato dalla possibilità di una ribellione, Washizu si rivolge ancora allo spirito che gli aveva fatto la profezia, e questo lo rassicura garantendogli l’invincibilità fino a quando la foresta non si muoverà verso il suo castello. Una parte del paese, guidata da alcuni sopravvissuti fedeli al vecchio re, si ribella e un esercito marcia contro il castello, proteggendosi con i rami degli alberi. I soldati arroccati nel castello, terrorizzati, gli si rivoltano contro crivellandolo di frecce.

Presentato alla Mostra di Venezia del 1957, il film è la trasposizione della tragedia shakespeariana Macbeth nel clima medioevale nipponico. Il regista utilizza ampiamente la tecnica espressiva del Teatro Nō, sostituendo l’azione al dialogo. Nel 1985, a distanza di quasi trent’anni, Kurosawa dirigerà un altro adattamento shakespeariano, Ran (Caos), tratto dal Re Lear.

Un film imperdibile. Se pensiamo che è stato girato nel 1957, non si può che restare impressionati dall’abilità tecnica del regista e della troupe (la nebbia, la foresta in movimento, la pioggia di frecce della scena finale) e dall’abilità espressiva di tutti gli attori, costantemente impegnati in una specie di danza rituale.

I soldati di Washizu si ribellano.

CRITICA. Non è semplicemente una trasposizione del Macbeth scespiriano, è una traduzione del teatro inglese in teatro giapponese: nelle scene in interni i personaggi si muovono seguendo le regole coreografiche del teatro No, ma al contempo secondo una logica cinematografica. Questo film è responsabile, me ne sono accorto solo pochi anni fa rivedendolo dopo tanto tempo, di due incubi che turbavano le mie notti di bambino (avrò avuto 3 o 4 anni): in casa avevamo la statua di una giapponesina vestita, acconciata e truccata come Asaji, la Lady Macbeth di Trono di sangue. Di notte mi tendeva degli agguati sanguinosi, e di giorno io le giravo alla larga. Quando non era la giapponesina, erano le piante, che mi si paravano davanti agitandosi freneticamente. V’infliggo queste mie vane memorie personali solo per illustrare quanto il film sia figurativamente impressionante, con alcuni momenti indimenticabili oltre ai due cui ho fatto riferimento (alludo alla foresta che avanza verso il castello, e alla follia di Asaji che cerca di lavar via il sangue dalle mani), come le apparizioni degli spiriti indovini e del fantasma di Miki, la pioggia di frecce scoccate verso Washizu, l’assassinio del principe (che non si vede, ma è anticipato dalla descrizione di un precedente analogo avvenuto nella stessa stanza). La potenza del dramma di Shakespeare non perde nulla del suo vigore. Mifune giganteggia, la Yamada è inquietante quanto basta. La musica asseconda pregevolmente la duplice veste teatrale e cinematografica. Cosa non mi ha convinto: l’introduzione alla vicenda e ai personaggi avviene attraverso gli annunci dei messaggeri. E’ un modo come un altro di avviare la macchina, ma a me ricorda un po’ troppo la funzione del recitativo nell’opera settecentesca.

Toshiro Mifune nella sequenza finale.

Nell’edizione italiana sono stati aggiunti frammenti di dialogo: quando Washizu vede avanzare la foresta emette solo degli urlacci, tradotti nella versione italiana con un inutile e inappropriato “E’ un miracolo, è una magia, sono i diavoli”. (www.claudiocolombo.net)

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