L’arco è nominato dal filosofo Eraclito (quello di pànta rèi os potamòs, tutto scorre come un fiume) con queste parole: dell’arco il nome è vita, ma l’opera è morte. Un sottile gioco di parole, perché tra biòs «arco» e bìos «vita» cambia solo l’accento. La parola greca tòxon identifica sia l’arco che la freccia, termini a cui attribuiamo notevoli significati metaforici (l’arco del tempo, avere ancora frecce all’arco, sfrecciare come raggi luminosi, ecc.).
La letteratura greca è particolarmente ricca di figure armate di arco e frecce. Al dio greco Apollo Argurotoxos (dio dall’arco d’argento) e alla sua sorella gemella Artemide Agrotera (dea protettrice della caccia) sono accreditate numerose prodezze sia a vantaggio che a discapito dei mortali. Un altro dio greco, Eros figlio di Afrodite, era un abile arciere che per farle innamorare colpiva le sue vittime con frecce d’argento. Sembra che siano state proprio le frecce di Eros a determinare il passaggio dall’animalità alla umanità dei primi esseri terreni dotati di intelletto: i Centauri.
Esseri primordiali metà uomini metà cavalli, ebbero un importante ruolo proprio come maestri di tiro: in particolare Chirone fu maestro del grande eroe greco Achille. Che come è noto aveva un solo punto vulnerabile, e fu proprio una freccia che lo tolse di mezzo, almeno secondo una controversa tradizione orale poi confluita in varie fonti classiche (il poema “Etiopide”, poi ripreso da Stazio, da Tolomeo Efestione, ecc.). Allievi di Centauri furono anche Teseo ed Eracle, che in punto di morte regalò il suo arco d’avorio e le sue frecce avvelenate a Filòttete, eroe protagonista di diverse opere classiche, e sicuramente il più grande degli arcieri achei. Filòttete fu l’uccisore di Paride, ovvero del troiano che lanciando strali erotici alla nobile Elena sposa dell’acheo Menelao aveva dato origine alla guerra di Troia. Ma anche, secondo una suggestiva ricostruzione di Alberto Majrani, una sorta di “controfigura” del protagonista di una delle più ricche opere dell’antichità, il navigatore Odisseo, che probabilmente non sarebbe mai stato in grado di compiere l’impresa degli anelli e immediatamente dopo la strage dei Proci. In generale, da queste letture si ricava l’impressione che arco e frecce fossero uno strumento indispensabile nella rappresentazione dell’eterna lotta per la sopravvivenza.
Anche le donne fanno la loro parte: si tratta delle Amazzoni, capitanate dalla nobile Pentesilea, ritratta in un vaso nell’atto di difendersi dal prode Achille, armato di giavellotto mentre la donna impugna saldamente un arco cavalcando all’indietro.
Le imprese di eroi ed eroine arricchivano le serate conviviali private e le occasioni di ritrovo pubblico come gli spettacoli teatrali e le cerimonie sacre. Di converso, secondo le fonti più accreditate (come il voluminoso “Armi ed armature dei Greci” di Arnold M. Snordgrass), la Grecia classica non amava l’arco come strumento di guerra, anche se indiscutibilmente ogni città-stato greca aveva qualche reparto di arcieri, sovente mercenari che provenivano da Creta o da Samo, dall’Anatolia (Turchia) o dalla lontana Nubia (Basso Egitto). In particolare, sembra che l’arco composito da guerra sia stato introdotto in Grecia dagli Sciti (antichi abitatori dell’attuale Iran). Non per niente, l’arco non entra nei Giochi Olimpici, nemmeno nella corsa con le armi, in cui gli atleti indossavano solo le pesanti armature da oplita.
Alcune delle raffigurazioni che costituiscono la fonte delle nostre notizie non sono coeve, e dunque non fatevi ingannare dalla foggia dell’arco.